Analisi personale come strumento di formazione
Riflessioni sul percorso analitico nel percorso formativo
Il testo invita a riflettere sui diversi apprendimenti nel percorso di formazione di uno psicoterapeuta. Rimanda all’importanza di pensare che accanto agli apprendimenti teorici e tecnici che passano attraverso l’intelletto sono centrali gli apprendimenti emozionali che passano attraverso il ripercorrere la propria storia.
La riflessione sulla formazione del terapeuta non può che passare attraverso un’unica domanda: chi è il terapeuta. L’inflazione delle parole spese sul livello di preparazione professionale ha portato ad un progressivo allontanamento dalla questione dell’essere terapeuta. L’attenzione dedicata alle conoscenze e competenze tecniche ha compiuto una lotta importante contro l’attività selvaggia della professione, ma ha contemporaneamente posto in secondo piano l’anima del terapeuta, il suo livello di maturità, la qualità del suo sguardo su di sé e sul mondo, creando così l’illusione che cultura e tecnica possano non solo essere sufficienti, ma, ancora peggio, possano essere strumenti fruibili da colui che non si è mai posto davanti alle proprie profondità.
Non si tratta di individuare livelli d’importanza fra gli aspetti formativi, di creare domini o pensieri dicotomici, si tratta della necessità impellente di consapevolizzare che teoria e tecnica passano attraverso la persona del terapeuta, che idee ed azioni trovano la loro corretta espressione in uno spazio, in un tempo ed in un’intenzione. Uno spartito diventa suono attraverso lo strumento, ma si fa musica solo grazie ad un musicista che sappia interpretare con passione.
Attraverso l’analisi personale, il terapeuta in formazione può compiere l’esperienza diretta della relazione clinica, capirne il valore, la potenza, la ricaduta emotiva, e comprendere il processo di consapevolezza ed il movimento trasformativo: questa è l’unica strada attraverso la quale interiorizzare gli strumenti, per non diventarne semplice ripetitore meccanico.
Questo è il motivo che spesso porta gli allievi delle scuole di psicoterapia a compiere l’analisi personale, analisi che spesso viene erroneamente definita didattica. Questo errore di definizione non nasce solamente da un errore concettuale, dato che l’analisi didattica è un altro percorso, ma nasce soprattutto dal bisogno di difesa. È più facile dirsi che si compie un training analitico per imparare un mestiere che opereremo su altri che hanno davvero bisogno, e non riconoscere il nostro bisogno, il bisogno del terapeuta che, prima di tutto, è un individuo che ha bisogno di entrare in un contatto consapevole ed armonico con le proprie profondità, con gli aspetti rimossi e negati, con i derivati della propria storia, le immagini interne, le dinamiche relazionali che lo muovono nella relazione con l’altro da sé, con la propria narrazione unica ed irripetibile. Una difesa, dunque, che porta esclusivamente a perdere la bellezza della scoperta dell’unica terra veramente da conoscere, noi stessi.
Com’è possibile condurre qualcuno lungo sentieri dove non abbiamo mai osato entrare per primi? Quale la possibilità di affrontare le zone buie dell’interiorità se le nostre sono rimaste a noi celate? Come invocare il coraggio dell’esistenza se noi siamo rimasti pavidi davanti alla nostra anima nascondendoci nella razionalità e nel tecnicismo?
Esistono informazioni che possiamo acquisire con l’intelletto, approfondirle con la volontà ed esercitarci con l’impegno. Ma esiste una conoscenza di cui possiamo solo fare esperienza. Nessuno conosce un’emozione o un sentimento se non l’ha vissuto, nessuno conosce le sfumature di una relazione se non vi è passato attraverso. L’analisi personale è un viaggio da compiere e non da studiare, nessuno può conquistare questo territorio attraverso il racconto di un altro, ed è questo che fa della propria analisi un atto formativo unico e personale.
È nella relazione terapeutica che il processo di guarigione si compie, ed il terapeuta ripercorre con il proprio paziente i passi di una scoperta dolorosa ed emozionante, ma per esserne guida occorre che egli sappia di sé, che abbia aperto un dialogo onesto e creativo con la propria storia, che sia in grado di non confonderla con quella del paziente, che abbia raggiunto, come individuo, la possibilità di una relazione autentica ed intima con l’altro…occorre, insomma, che abbia raggiunto una maturità psichica che gli consenta di confrontarsi con la vita e di aver trasformato il dolore che opprime in una sofferenza che consenta di crescere.
Roberta Rossi